Pesca ai pelagici
Questa tecnica si rivolge generalmente alle grosse specie pelagiche, quando queste, durante la primavera e la fine dell’estate, si avvicinano alle coste per il periodo degli amori. Le specie pelagiche che più di altre incappano negli arpioni del subacqueo sono di solito le Ricciole, le Lecce e, più raramente, Tonnetti e Palamite. Si tratta di animali potenti, formidabili nuotatori, generalmente di grandi proporzioni. La pesca al pelagico quindi impone avvertenze particolari, sia per quanto riguarda il luogo, sia per quanto riguarda la preparazione tecnica e fisica del sub.
Lecce e Ricciole, ma anche Tonni e Palamite, che piu’ o meno bazzicano gli stessi posti, sono pesci pieni di muscoli, forti, combattivi, abituati a correre per i mari. Il loro peso può variare dai dieci ai cinquanta chili ed esemplari così imponenti sono tutt’altro che rari. Di conseguenza l’attrezzatura deve essere all’altezza della situazione. Non ci sono preferenze particolari per quanto riguarda pinne, maschere, mute, ecc., ma ci sono esigenze ben precise per i fucili, le frecce e gli arpioni. Il fucilino per Saraghi e Cefali è quasi sempre inadeguato alle circostanze. Meglio rivolgersi verso armi lunghe, robuste e potenti, impiegate anche per la pesca all’aspetto. Del resto, come vedremo, la pesca al pelagico comporta tattiche abbastanza simili a quelle della pesca all’aspetto. Variano soltanto l’ambiente e le dimensioni delle prede. Si spara generalmente da lontano, ma il bersaglio è grande e poco mobile, per cui la mira è facilitata. La vera difficoltà consiste nel recupero. Un pescione colpito in pieno fa una tale sarabanda di evoluzioni che la freccia può spezzarsi, oppure può torcersi al punto da sfilarsi dalle carni. L’arpione è quindi il punto focale. Per questo tipo di pesca si usano due tipi di arpione: uno solidale con la freccia, tipo tahitiana, l’altro snodato completamente. Il primo in sostanza è un prolungamento della freccia stessa, che finisce a punta e che ha incernierata una o due alette ben dimensionate (in questo modo si elimina il punto debole della giunzione a vite tra l’arpione e la freccia); il secondo è un arpione speciale, dotato di alette di trattenimento molto grandi, che una volta conficcato nel pesce rimane collegato alla freccia solo per mezzo di un cavetto di acciaio. Così il pesce, dibattendosi, non può far leva sull’asta, che pende inerte, per allargarsi la ferita e cercare scampo nella fuga. Esistono anche arpioni a testa esplosiva, che esplodono subito dopo aver urtato la preda, provvocando terribili mutilazioni, ma non sono sportivi ed hanno motivo di essere utilizzati soltanto nella pesca degli squali, data l’indiscussa pericolosità di questi animali. E’ bene che il fucile sia dotato di un mulinello robusto e capace, in modo da poter sfruttare al massimo la gittata della freccia, senza avere pericolose spire di sagola galleggiante che potrebbe inpigliarsi ad un piombo della cintura, al boccaglio o a qualche altra sporgenza, rendendo inefficace il tiro scoccato dopo un laborioso lavoro di avvicinamento. E’ di vitale importanza disporre anche di una boa, o di un secondo pallone segnasub, che però non ha niente a che vedere con i normali palloni utilizzati dai sub per farsi avvistare dalle barche in navigazione. Più che di palloni, in effetti, si tratta di vere e proprie boe pneumatiche, sia a forma di sfera, sia a forma cilindrica. Questi galleggianti devono essere imbragati in una rete e quindi assicurati a robuste sagole legate o al fucile o alla stessa freccia. Una volta colpito, il pesce può dibattersi e divincolarsi a suo piacimento, perdendo gradatamente le sue forze, mentre il sub potrà tornare in superficie a respirare senza il timore di vedere la sua preda sparire nel blu degli abissi, magari trascinandosi appresso il fucile ancora collegato alla freccia.
Queste prede nuotano generalmente a mezz’acqua, ad una certa distanza dal fondo, in relazione alla profondità totale. In ambiente costiero, quindi con profondità variabili dai 15 ai 30 metri, conviene pescare all’aspetto appostandosi sul fondo o su qualche sperone di roccia di una parete a picco ed attendere che qualche preda si avvicini alla costa. Quando la visibilità è ridotta, dall’alto il fondo non si vede, o si intravede appena e può essere difficile trovare un posto per appostarsi ed attendere che una preda passi a tiro. Quindi faremo brevi immersioni a mezz’acqua, raggiungendo una profondità tale da poter vedere il fondale per individuare una zona adatta. Ci si muove piano, scendendo lentamente e risalendo piano per non allarmare eventuali pesci che sono poco abituati alla presenza umana. Ecco, la zona è stata trovata. Giù c’è un ciglio che sembra buono. Qualche boccata d’aria, la capriola e via. La discesa è sempre una caduta inerte. Se siamo a ridosso di una parete verticale è consigliabile scendere lungo di essa, perchè saremo meno individuabili. Sul fondo, il pescatore si apposta come al solito, con il fucile puntato verso il largo, immobile come una pietra. La visibilità è di una decina di metri, ma l’orizzonte è ancora più ristretto. Donzelle e Tanute riempiono la visuale, poi comincia a vedersi qualche Sarago sparabile, qualche Tordo corpulento. Il dito sul grilletto freme. E’ meglio sparare o aspettare che compaia qualche preda di alto lignaggio? E’ l’eterno interrogativo. La risposta dipende dal tipo di soddisfazione che si vuole ottenere e dall’obiettivo che ci si è prefissati. Se si vuole fare carniere e puntare sulla quantità bisogna sparare appena arriva a tiro la prima preda di sufficiente grandezza, se invece si punta sulla qualità è meglio aspettare, a costo di andare in bianco. L’incognita, del resto, fa parte del gioco.
Come la discesa deve essere casuale, cioè a caduta, altrettanto la risalita non deve essere troppo decisa e possibilmente deve essere effettuata secondo una traiettoria obliqua, che non dia l’impressione della fretta. Ciò è possibile solo se il subacqueo abbandonerà il fondo con ancora una piccola riserva di apnea. E’ importante, quindi, calibrare le proprie risorse. Il pesce pelagico, infatti, e lo abbiamo già detto, si spaventa in modo particolare quando vede l’uomo pinneggiare verso la superficie e molte volte lo spavento è tale da indurlo a non avvicinarsi più al cacciatore nemmeno nel corso delle immersioni successive. Più si è cauti nella fase di risalita, più si avranno in seguito probabilità di ottime catture. E ricordatevi che non è mai funzionale insistere troppo nello stesso luogo. A forza di scendere e di risalire il pesce mangia la foglia e non si avvicina. Come non è più ripetibile l’agguato in un posto dove avete appena fatto la vostra vittima. In entrambi i casi basterà spostarsi di una decina di metri per ritentare la sorte. L’incontro con il pelagico è di solito casuale, perchè Ricciole, Lecce, Tonni e affini non si fanno mai precedere da un biglietto da visita. Improvvisamente compaiono e improvvisamente spariscono senza nemmeno offrire un’occasione al sub. Sta al pescatore essere più o meno pronto a riceverli. Quasi sempre ci si arrangia con le attrezzature che si hanno in quel momento, ma esistono molte zone dove i pesci pelagici sono particolarmente frequenti nella stagione adatta e dove si può tentare la sorte a ragion veduta, a costo di trascurare prede più piccole. Queste zone sono le punte che precipitano nel blu, i grandi promotori che si incuneano nel mare aperto, interrompendo l’uniformità della costa, le secche al largo che si innalzano dagli abissi, le grandi foci dei fiumi che attraggono molta minutaglie e, di conseguenza, anche questi predoni del mare. Le Lecce, in special modo, abitano anche ambienti diversi, come le imboccature dei porti e le larghe spiagge a fondo sabbioso o misto.
Pescando in mare aperto il sub deve adattarsi a galleggiare nel blu, nuotando lentamente in superficie nella speranza che qualche grosso esemplare gli arrivi a tiro. La fortuna e’ determinante, perchè l’attesa è estenuante e si può risolvere in un niente di fatto. Tanti giorni andati a vuoto valgono però la gioia di una cattura. Sarà una sola, ma la si ricorderà per tanti anni parlando delle proprie avventure di pesca. Abbiamo detto che i pesci arrivano improvvisamente addosso al pescatore. Gli animali pelagici non sono abituati a vedere i subacquei, per cui non li temono molto. Spesso ne sono addirittura attratti e si avvicinano all’uomo per soddisfare la propria curiosità. Ma anche loro sono pesci e quindi timidi e diffidenti. Basta un niente per spaventarli e farli fuggire. L’attacco diretto quasi sempre non riesce. Avvistate le prede (di solito un branco di qualche decina di individui), il sub deve immergersi a una decina di metri di profondità e rimanere immobile con il fucile in posizione di sparo. Una specie di pesca all’aspetto, solo che invece di essere appostati sul fondo si è sospesi nel blu. Le prime volte fa una certa impressione, ma poi ci si abitua. Se i pesci mostrano una certa titubanza all’approccio ravvicinato si può tentare di incuriosirli ulteriormente, sia espellendo un po’ di bolle d’aria dal boccaglio, sia battendo in maniera ritmata la lama del coltello contro la canna del fucile. Il rumore metallico e il gorgoglio delle bolle li attirano, non si sa perchè. I pescioni circonderanno il sub in immersione e gli gireranno intorno festosi per due o tre volte. Sceglietevi la preda e mirate solo a quella, senza lasciarvi distrarre da altri bersagli magari più vicini o più grossi. E mirate alla testa. Male che andrà centrerete la preda dietro le branchie, che è un’ottima zona di tenuta. Poi succederà il cataclisma. Il pesce ferito non si arrende facilmente. Se avete ancora fiato cercate la lotta corpo a corpo. Precipitategli addosso come valanghe, abbracciatelo e stringetegli gli occhi con le dita, mentre lo trascinate in superfice. Altrimenti se siete al limite dell’apnea, lasciate che si dibatta e tornate su a respirare. Il sagolone eviterà che se ne vada troppo lontano. Poi prendete il fucile di riserva (ci deve sempre essere in una pesca del genere), scendete di nuovo e trafiggetelo ancora. Due frecce tengono meglio di una. Chiaramente, una volta che la preda è morta bisognerà riportarla in superficie a forza di braccia e caricarla sul natante in appoggio, sia esso un gommone che una solida barca.